In territorio di Gavoi, nella regione limitrofa al territorio di Mamoiada, di Fonni e di Lodine, esisteva, da tempo immemorabile, una chiesetta dedicata alla Vergine d’Itria. S’ignora da chi e in quale epoca fu costruita. Al riguardo si può fare soltanto qualche congettura molto vaga ed incerta, in base ad elementi di studio che possono essere forniti da un’attenta osservazione della zona stessa, notevolmente interessante sotto l’aspetto archeologico. Qui infatti, in diversi punti, esistono ancora i ruderi di costruzioni megalitiche che dimostrano come la regione fosse un centro abitato fin da tempi remotissimi: nella zona di “Istelathe” si vedono ancora le tracce di mura ciclopiche, formate da enormi macigni granitici sovrapposti mentre a “Soroeni” sono evidenti le mura delle capanne di un grande villaggio.
Sono presenti anche i ruderi di alcuni nuraghi semidiroccati, come quello denominato ”Zorzi Froris”, con la sua celletta a volta di pietre, ormai semidistrutta; quello chiamato “Castrulongu”, che presenta ancora intatta la porta d’ingresso, bassa ed angusta, con architrave formato da una sola grossa pietra rozza; quello denominato “Talaighè”, il più intatto fra i nuraghi della zona, con la sua forma caratteristica a tronco di cono, con la sua cella a volta di pietre, cui si accede per una porta bassa e stretta, con la muratura fatta di blocchi granitici ricoperti esternamente di una patina gialla; e poi ancora quelli di “Mucru” , “Arrana”, “Golamidda” e “S’Abba Mala”.
Si possono, inoltre, osservare quelle che comunemente vengono dette “Domus de Janas”, tombe primitive, sotterranee o scavate nella viva roccia, inizialmente dalle forze della natura e poi regolarizzate dalla mano dell’uomo. Tali sono quelle dette “sas fenestras”, nome derivante dalla finestrella a due fori quadrangolari che caratterizza una di esse, scavata in un’enorme roccia; tali sono anche quelle che si incontrano nella salita verso ”Istelathe” e nel villaggio di “Soroeni”. Sono presenti anche alcune tombe dei giganti, tra le quali la più grande si trova in regione “Lidana”. Ma un’attenzione tutta particolare merita il “Menhir”, la così detta ”Perda de sa Itria”, che si trova all’interno de “Su Zardinu”, enorme e grezza colonna monolitica di granito che, conficcata verticalmente e profondamente in terra, s’innalza a guisa di obelisco fino all’altezza di circa quattro metri dal suolo.
Quale sia il segreto che esso racchiude è avvolto nel mistero.
In quest’area così ricca di storia, sorse, in epoca imprecisata, la primitiva chiesetta, dedicata alla Vergine Madre di Dio, che più tardi fu detta Vergine d’Itria, titolo e denominazione che venne in Sardegna dall’Oriente, portato forse da cristiani profughi, scampati all’eccidio di Costantinopoli del 1453. In tempi più recenti, si sentì il bisogno di un tempio più vasto e grandioso che venne realizzato nell’arco di un anno. Esso venne consacrato il 19 giugno 1904.
Della vecchia chiesetta non fu conservato altro che la campana con la seguente iscrizione nella parte superiore:
S. MAR. D’ ITR. OR. PR. NOB.
VILN. ED. GAVOI
e nella parte inferiore:
HOC PI PIERI FECIT. FR. ANT. MAINAS IqXXXXIII (1543)
e la piccola statua della Madonna, entrambe collocate, all’interno della chiesa, sopra blocchi di granito lavorato. Nei decenni successivi il Santuario venne abbellito da numerose “Cumbissias” o “Muristenes” dotate dei necessari servizi infrastrutturali e fu abbattuto il muro di cinta con l’attiguo giardino al fine di rendere visibile da tutta la piazza “Sa Perda de Sa Itria” e utilizzarne l’ampio spazio, attrezzato con numerosi tavoli in granito, per i vari momenti di convivialità dei fedeli durante la novena e la festa.
IL CULTO
Le prime notizie relative alla venerazione della Madonna d’Itria risalgono ad un’antichissima tradizione secondo cui un quadro della Madonna col bambino avrebbe suscitato una speciale devozione nel cuore di molti fedeli. Questo quadro sarebbe stato dipinto da S. Luca quando era ancora in vita Maria SS.ma.
San Giovanni Damasceno, a tal proposito, così scriveva: “Imago Beatae Mariae quae habebat in brachio infantem Jesum, quam depinxerat in tabula S. Lucas, ut dicitur; cum adhuc viveret Maria.”
Attraverso una serie di vicende sconosciute, la tavola dipinta da S. Luca sarebbe stata portata da Gerusalemme a Roma e consegnata nelle mani di S. Silvestro, che fu Papa dal 314 al 337. Il Santo Pontefice avrebbe fatto donazione del suddetto quadro all’imperatore Costantino, che poco tempo prima aveva concesso la libertà di culto ai cristiani. Avendo trasferito la capitale dell’Impero da Roma a Bisanzio, che da allora fu detta Costantinopoli, in essa l’imperatore espose alla venerazione dei fedeli l’immagine di Maria, il cui culto fiorì prodigiosamente sotto il titolo di Maria d’Egitto. Più tardi, l’imperatrice Eudossia, moglie dell’Imperatore Teodosio il Giuniore, le avrebbe edificato una chiesa di fronte al palazzo imperiale, sulla spiaggia, vicino a S. Sofia. Da allora fu detta la Vergine di Costantino, titolo che tenne fino a quando non le fu dato quello di Odigitria, per il seguente strepitoso miracolo.
Il Miracolo
Due ciechi, nell’andare da una città all’altra, si smarrirono per la campagna, col pericolo di cadere in qualche precipizio. Ma la Vergine Maria, da essi invocata, li aiutò e li salvò, guidandoli a Costantinopoli fino alla Sua chiesa, dove, in mezzo ad una grande folla di devoti, i due ciechi riacquistarono istantaneamente la vista. Grati alla Madonna, essi la salutarono col titolo di Odigitria, che in lingua greca vorrebbe dire “via della luce, guida della strada”. Così infatti lasciò scritto lo stesso Damasceno:
“Haec autem imago vocatur Odigitria idest Ductrix, quia duobus caecis apparuit
Maria et deduxit ad ecclesiam suam et illuminavit.”
L’eretico Nestorio
Il patriarca di Costantinopoli era Nestorio, un eretico, che negava la divina maternità di Maria.
Condannato dal Concilio di Efeso (431) che stabilì come dogma la divina maternità della Vergine SS.ma, Nestorio venne condannato all’esilio e, ormai colpito da grave malattia alla lingua divenuta putrida, morì precipitando da cavallo durante il viaggio.
In riparazione per l’oltraggio nestoriano, i buoni cristiani, imitando l’imperatrice S. Pulcheria, arricchirono di preziosi doni la chiesa dove si conservava e si venerava il quadro della Madonna di Costantino, invocandola col titolo di Madre di Dio e sospendendo così quello di Odigitria.
Così si continuò fino a quando una spaventosa sciagura si rovesciò sulla città di Costantinopoli.
Caduta di Costantinopoli
Maometto II, con trecentomila turchi, marciò sulla città, di cui si impadronì il giorno di Pentecoste del 1453, compiendovi orribili massacri (40 mila morti), devastazioni, spogliazioni e profanazioni di luoghi, di oggetti e di persone sacre; 70 mila cittadini vennero tratti in schiavitù.
Quello fu l’ultimo giorno dell’impero romano d’Oriente, che era sopravvissuto quasi per un millennio alla caduta di quello d’Occidente.
Costantinopoli da allora divenne la sede centrale dell’Islam.
Ultime vicende del quadro di Maria
(...) Dopo essere stato venerato a Costantinopoli per 1120 anni (dal 333 al 1453), dice la tradizione che la stessa Vergine Maria, qualche giorno prima che arrivasse alla città l’esercito iconoclasta di Maometto II, ordinò ad una pia persona di collocare il quadro in una cassa e di gettarlo in mare. La cassa, affidata alle onde, fu da queste portata nel meridione d’Italia, dove l’immagine della Vergine, ormai sottratta al pericolo di profanazione o distruzione per opera dei 114 turchi invasori, fu venerata col titolo di “Maria d’Itria”, titolo che rimase come definitivo anche al quadro dipinto da S. Luca.
Miracoli e grazie
Numerosi sono i miracoli attribuiti alla Madonna d’Itria. Si racconta di come una desolata madre, piangendo per la sorte di un figlio, da vari anni sotto la più dura schiavitù in mano dei turchi, invocasse la Vergine d’Itria la quale rispose alle sue preghiere favorendo la fuga dell’infelice schiavo che, una volta libero, riabbracciò sua madre e, riconoscente verso la Madonna d’Itria, andò a deporre ai suoi piedi la pesante catena del suo passato servaggio. Si racconta anche di un moro che, per essersi convertito alla religione cristiana, fu messo per punizione dal suo barbaro padrone in una cassa di legno e gettato in mare. Il moro, avendo invocato l’aiuto della Vergine d’Itria, si salvò approdando sulla costa italiana(...).
Diffusione del culto
Da allora il culto della Vergine d’Itria si diffuse molto nell’Italia meridionale e centrale, in Sicilia ed in Sardegna in particolare, dove sono non poche le chiese a Lei dedicate: nell’intera Sardegna sono circa un centinaio, mentre nel Nuorese, fra le altre, si possono ricordare quelle di Orani, Fonni, Lodè ed una in territorio di Gavoi; un altare è dedicato alla Madonna d’Itria nel Santuario di Nostra Signora delle Grazie a Nuoro, ove pure esisteva una chiesa campestre, ora diroccata. A Gavoi, il Santuario campestre viene chiamato comunemente “Sa Itria”.